martedì 17 gennaio 2012

Vitale da Bologna, Sogno della Vergine

Vitale da Bologna, Sogno della Vergine (detail)
Vitale da Bologna (Bologna, documentato dal 1330 - morto ante 1361) Sogno della Vergine affresco trasportato su tela cm 114x155 Secolo: XIV Provenienza: Mezzaratta Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Questa immagine così tranquilla e famigliare di una giovane fanciulla addormentata nasconde uno dei maggiori misteri iconografici e pittorici del medioevo, e dell’intera cristianità, ossia il cosiddetto Sogno della Vergine. Di questo episodio della vita di Maria esistono pochissime rappresentazioni, appena tre, ed apparentemente dopo di esse la Chiesa ha cancellato questa immagine per certi versi inquientante ed ambigua dalla sua iconografia.

In questo affresco, commissionato a Vitale degli Equi nel 1352 da una confraternita laica per la chiesetta di Sant’Apollonia a Mezzaratta, viene rappresentata la Vergine addormentata mentre un’altra donna misteriosa la veglia con un libro in mano. Dal grembo di Maria emerge un grande albero sul cui ramo più alto c’è Cristo crocifisso sovrastato da un pellicano che strappa le carni dal suo petto per nutrire i figli.

L’esperienza onirica di Maria rappresenta in questo periodo la spiegazione più ricorrente dell’Immacolata concezione, oggetto di infinite dispute teologiche e sempre più censurata dal dogma nella sua storia recente rispetto ai dettagli che potevano destare imbarazzo. A quel tempo, però, teologi ed artisti si interrogavano sulla strana natura di questo momento di incontro del divino con il fisico, e le immagini che ne scaturivano conservavano molta più carnalità in relazione all’atto di quella che venica percepita in definitiva come una fecondazione corporea.

La soluzione più naturale, e più legata alla tradizione in cui l’uomo incontra il soprannaturale durante il sonno, era quindi quella di far incontrare la Vergine con lo Spirito in un grande sogno-metafora, dove l’intero significato della parabola cristana è riprodotta per immagini allegoriche di grande portata simbolica.

L’albero che emerge dal ventre di Maria potrebbe rappresentare l’Albero di Jesse, quindi la genealogia di Gesù e la sua provenienza dalla stirpe di Davide. Ma c’è un altro albero il cui significato esoterico è antico quanto la stessa tradizione biblica. Curiosamente questo albero viene nominato il 25 agosto 1256, circa un secolo prima della realizzazione di questo affresco proprio a Bologna, durante la proclamazione del Liber Paradisus da Rolandino de' Passaggeri

« Adamo aveva peccato d'orgoglio e debolezza per questo fu cacciato dal Paradiso. Adamo prima di morire volle che Seth chiedesse al Cherubino il perdono divino. Il Cherubino colse il seme dal pomo dell'albero fatale e lo pose sotto la lingua del morente. Da quel seme nacque un grandissimo albero che seccò dopo mille e mille anni e fu tagliato alla radice. Un giorno giunsero degli uomini che ne segarono due tronchi e con quelle fecero una croce... la Croce di Cristo. Quindi l'albero del Paradiso, principio della colpa e della schiavitù, diventa l'albero della redenzione e della libertà »

Non è escluso che questo affresco voglia ricordare le parole di questa leggenda e questo atto di libertà ed emancipazione, oltre che sottolineare come nella figura della Vergine converga e si snodi l’intera storia del cristianesimo, dalla Genesi alla Passione. E forse è questa centralità della figura femminile di Maria, a cui intere confraternite si dedicavano con un fervore che ricorda l’adorazione degli archetipi femminili pagani, a risultare realmente scomoda per la Chiesa, fino a provocarne la cancellazione in favore di episodi in cui Maria ha un ruolo più subalterno e passivo nella vicenda della Concezione, vissuta non più come un incontro tra la Vergine e lo Spirito Divino, ma come una epiclesi dello Spirito Santo attraverso l’annunciazione e l’intermediazione degli angeli.

Questa immagine sembra essere anche legata dell'iconografia russo-bizantina della cosiddetta Vergine del Segno, dove sopravvisse, forse a causa di una minore misoginia della Chiesa d'oriente, e fu al centro di una lunga e importantissima tradizione, come testimoniano le parole di Sant'Ireneo:

Dunque questo Figlio di Dio, nostro Signore, che è verbo del Padre è anche Figlio dell'uomo, poichè da Maria, che aveva avuto la generazione da creature umane ed era ella stessa creatura umana, ebbe la nascita umana e divenne Figlio dell'uomo. Perciò il Signore stesso ci dette un segno, in profondità e in altezza, segno che l'uomo non domandò, perchè non si sarebbe mai aspettato che una vergine potesse concepire e partorire un figlio continuando ad essere vergine, e il frutto di questo parto fosse - Dio-con-noi; che egli discendesse nelle profondità della terra a cercare la pecora che era perduta, e in effetti era la sua propria creatura, e poi salisse in alto ad offrire al Padre quell'uomo che in tal modo era stato ritrovato. Sant'Ireneo, Adv. Haer., II, 19, 3 PG 7, 941A

I padri della Chiesa orientale diedero infatti a Maria l’appellativo di “Platytera”, colei che è più vasta dei cieli. Maria è quindi la casa di Dio, la porta del Cielo (cfr. Gn 28,17). La Theotokos fu il primo “Ostensorio” dell’umanità, il vero calice della salvezza, come spesso viene indicato nel "segno" che compare dentro la sua rappresentazione. L’immagine è addirittura paragonata alle braccia alzate di Mosè, che con la sua preghiera intercedeva per la vittoria del popolo di Israele (cfr. Es. 17, 9-13).

Il Sogno di Maria ha ispirato artisti e poeti di ogni tempo, da Fabrizio De André a Giovanni Pascoli, che ha scritto una poesia colma di riferimenti alla carnalità di questo episodio:

La vergine sogna; ed un rivo
di sangue stupisce le intatte
sue vene; d'un sangue più vivo,
più tiepido: come di latte...

Stupisce le placide vene
quel frutto soave e straniero,
quel rivolo, labile, lene,

d'ignota sorgente, che sembra
che inondi di blando mistero
le pie sigillate sue membra.

Su questo dipinto e la sua storia di mistero è stato inoltre scritto nel 2009 un libro: “Il sogno della Vergine. L'enigma di una pittura dalla Bologna del Trecento tra mito, superstizione e preghiera”, di Laura Salmi e Maurizio Catassi.

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