martedì 17 gennaio 2012

Pseudo Jacopino, San Giacomo alla battaglia di Clavijo

Pseudo Jacopino, San Giacomo alla battaglia di Clavijo (detail)
Pseudo Jacopino (Bologna, prima metà del XIV secolo) San Giacomo alla battaglia di Clavijo Datazione: 1315 - 1320 affresco cm 303x675 Secolo: XIV Provenienza: Chiesa di San Giacomo Maggiore - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Questa è la storia di uno degli Apostoli di Cristo, di un minuscolo comune spagnolo, di un re di nome Ramiro, di un emiro di nome Abd al-Raḥmān e di una battaglia leggendaria.

E’ il 23 maggio 844, e nel minuscolo paesino di Clavijo, di fronte al monte Laturce, proprio al centro della provicia della Riojia, si fronteggiano due eserciti. Da un lato il possente esercito dell’emiro Abd al-Raḥmān II, dall’altro quello più piccolo, ma reso forte della fede e della disperazione, di Ramiro I delle Asturie.

L’emiro è un amante della poesia e delle belle arti e vorrebbe solo vivere tranquillo nel suo palazzo di Cordoba, ma questo non gli è mai stato possibile. Il suo problema, ha un nome solo e si chiama “cristiani”. Certo, anche i Vichinghi hanno invaso il regno e quasi conquistato la capitale, ma sono stati respinti e soprattutto sono un nemico che si batte con le armi della guerra tradizionale. I cristiani, invece, sono dei ribelli perniciosi, sempre in fermento e desiderosi di calare dal Nord a riprendersi le terre dei loro avi. Nell’851 sono arrivati persino a farsi martirizzare in massa bestemmiando tutti il Profeta: è stato necessario un editto e un sinodo cristiano per fermare questo assurdo suicidio di massa. E ora sono ancora là, in armi, a minacciare i confini settentrionale del regno.

Ramiro I delle Asturie ha conosciuto anche lui i Vichinghi. Prima di attaccare Siviglia avevano provato con il suo regno, ma era stati prontamente respinti dal suo esercito. Per lui niente è mai stato facile: è salito al trono su nomina del cugino, ma ha dovuto combattere l’usurpatore Nepoziano, di origine visigota, e il suo problema ha un nome solo, e si chiama “al-Andalus”, i Mori, giù a Sud delle Asturie, a spadroneggiare sulla terra dei suoi avi, e ad esigere i tributi più odiosi, come quella delle “cento donzelle”, cento giovinette che ogni anno devono essere strappate alle famiglie e spedite a Cordoba per riempire gli harem dell’emiro e della sua corte. E ora eccoli là, i Mori, in armi, a minacciare i confini meridionali del regno.

La battaglia ha inizio, e come tutte le battaglie sa di ferro, sangue, fumo, morte. I Mori, meglio armati e organizzati, oltre che più numerosi, stanno avendo la meglio. Forse Clavijo e la Riojia cadranno, e un altro pezzo di Spagna andrà in mano ai Mori. Forse i tributi diverrano più esosi e l’emiro si farà più spavaldo. Forse non c’è un futuro per l’orgoglioso regno delle Asturie.

Forse. Ma ad un tratto, da una direzione che non è quella di nessuno dei due schieramenti, compare uno strano cavaliere, su un meraviglioso cavallo bianco il cui manto, sotto il sole quasi estivo, splende fin quasi ad accecare. Indossa vestiti stranissimi, non la cotta di maglia, non le solite armature di cuoio, non sono nemmeno abiti da soldato o da scudiere: porta una tunica chiara ed un mantello che sventola nell’aria limpida, ed è scalzo. Forse è solo un riflesso, ma intorno alla sua testa sembra esserci un alone di luce ancora più intensa di quella del solo.

I soldati di entrambe le parti si guardano tra loro, sono perplessi: forse un pazzo, forse un tranello, forse una manovra diversiva. Forse un altro cristiano che vuole farsi massacrare. Forse. Ma intanto il cavaliere sprona il suo cavallo al galoppo, e punta a testa bassa l’esercito dell’emiro. La prima linea indietreggia instintivamente. Poi, compare una spada e la mano del misterioso cavaliere traccia un segno di croce nell’aria. E tutto cambia.

I Mori sembrano perdere forza e coraggio, indietreggiano confusi, alcuni scappano, moltissimi muoiono intorno al cavallo bianco e al suo cavaliere. Si apre una breccia nella prima linea, ma ancor prima si apre una breccia nel cuore dei soldati musulmani: una breccia di paura e di dubbio. Una breccia che sa di vergogna e di sconfitta. Ed è in quel momento che, dalle linee cristiane, qualcuno lancia un grido selvaggio. Il grido è una parola, e qualla parola è un nome, e quel nome è un miracolo: “Santiago”.

Il resto è ritirata, panico, soldati che inciampano e urlano, comandanti che lanciano ordini inascoltati, rumore di ossa rotte e pianto, il tutto sovrastato dall’impressionante grido dei cristiani “Santiago, Santiago, el Matamoros”. Infine, cala un silenzio fatto di cenere e lamenti. I soldati di Ramiro si guardano in giro, ma lo strano cavaliere è scomparso. Il re non ha però alcun dubbio, l’aveva sognato la notte prima, e gli era sembra un ottimo auspicio: Santiago, San Giacomo il Maggiore, l’Apostolo che Cristo chiamava il figlio del tuono.

Santiago Matamoros, che diventerà il simbolo stesso della Reconquista e che non lascerà il fianco dei re cristiani fino alla cacciata dell’ultimo Omayyade dalla penisola. Ora il tributo delle cento donzelle non è più dovuto all’odiata Cordoba, e diventa un tributo in denaro per il santuario che conserva le spoglie del Santo, in una località che i Romani chiamavano Campus Stellae.

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