martedì 17 gennaio 2012

Pseudo Jacopino, Polittico

Polittico
Pseudo Jacopino (Bologna, prima metà del XIV secolo) Datazione: 1340 circa tempera su tavola cm 122x191,5 Secolo: XIV Provenienza: Santi Naborre e Felice - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Lo Pseudo Jacopino è un maestro che venne per errore associato con tale Jacopino di Franceso de' Bavosi, che poi si è scoperto essere più tardo. Questo maestro è uno dei più arditi del suo tempo, uno sperimentatore per certi versi. Uno che, pur ricalcando i modelli popolari (non credo si potesse fare diversamente all'epoca), introduce degli elementi di forte drammaticità, delle espressioni deformate, delle visioni fantastiche e delle interpretazioni molto oltre i canoni del suo periodo. Nella parte centrale, un tema molto amato in questo periodo, l'incoronazione della Vergine.

Questo tema, che rappresenta l'atto conclusivo e l'ultimo mistero del Rosario*, simboleggia il difficilissimo ma cruciale rapporto che in questa fase della cristianità si ebbe con la figura di Maria. Tra il duecento e il cinquecento fiorirono numerosissime interpretazioni (alcune accettate, altre abbondantemente eretiche) della figura della Vergine. La questione verteva sull'accettazione di una figura femminile (e così paganamente materna) nelle sfere più alte del paradiso cristiano. Le ali più maschiliste e conservatrici della chiesa (ad es. i domenicani) preferivano un ruolo sottomesso, mentre l'ala più spirituale e mistica arrivò ad annoverarla in una sorta di "quaternità", insieme alle tre persone divine.

L'incoronazione media tra questi estremi e rappresenta in un unico atto sia la sottomissione della vergine, sia la sua accettazione nella sfera più alta della gerarchia celeste. E' sempre il Figlio ad incoronare la Madre, ed ella sta sempre a sinistra rispetto all'osservatore. L'atto di conferire santità è sempre rappresentato con grande delicatezza, mentre Maria appare più o meno sottomessa a seconda della fazione committente, cosa che risulta più evidente in altre opere.

Nell'arcata in basso a sinistra, San Benedetto che indica la Regola con il fido pastorale, il che farebbe pensare all'Ordine relativo come committente. Si possono leggere la parole della Regola sul libro di San Benedetto, ossia: "Asculta [o obsculta], fili praecepta magistri" (pagina di sinistra), che sarebbe l'incipit della Regola ("Obsculta o fili praecepta magistri"). Il fatto di non mettere la "o" potrebbe non essere casuale, ed essere una citazione della nota bolla papale "Ausculta fili" del 1301 di Bonifacio VIII a Filippo il Bello. Nella pagina di destra leggiamo "inclina aurem cordis" (tutta la regola in latino con traduzione a fronte)

* quando dico "ultimo mistero del Rosario" intendo il rosario tradizionale di 150 Ave Maria, quindi l'ultimo Mistero Glorioso. Nel 2002 vennero aggiunti i Misteri Luminosi portando a 200 le Ave Maria del Rosario completo. vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Rosario

Lippo di Dalmasio, Trittico

Trittico (dettaglio)
Lippo di Dalmasio (Bologna e Pistoia, doc. dal 1377 al 1410) Datazione: 1390, circa cm 160x86 - 169x64 - 169x64 Secolo: XIV Provenienza: Chiesa del Conservatorio di Santa Croce (Istituti educativi), depositato in Pinacoteca nel 1940 - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Il corallo è uno degli elementi simbolici più potenti del medioevo, legato all'infanzia e alla sua protezione. Esso è insieme il simbolo del sangue versato sul Golgota, di cui il Bambino Gesù già porta il segno precursore, un simbolo riconoscibile di regalità e un amuleto contro i poteri del demonio. Il corallo sul bambino gesù ricorre molto frequentemente nell'arte medievale, forse uno dei dipinti più famosi con questo dettaglio è la “Madonna di Senigallia” di Piero della Francesca.

Il velo trasparente della madonna rappresenta un piccolo virtuosismo pittorico, ma ha anche un potente significato simbolico: uno dei temi più importanti di questo tipo di rappresentazione è l'anticipazione della morte di cristo, che ha già il destino segnato, secondo la concezione medievale, fin dalla sua concezione. Queste scene apparentemente gioiose nascondono una serie di simboli di morte e di precursione della crocifissione che avevano tra l'altro lo scopo di comunicare alle masse la condanna umana alla morte, ricordando allo stesso tempo l'importanza di concentrarsi sulla vita ultraterrena. Il velo della madonna ne è un classico esempio: secondo la leggenda, la Madonna stava infatti tessendo quel velo quando ricevette l'annunciazione, lo porterà durante l'infanzia di Gesù, ed esso diverrà infine il sudario del Cristo deposto.

Simone di Filippo, Polittico

Polittico (dettaglio, incoronazione di Maria)
Simone di Filippo detto "de' Crocefissi" (Bologna, doc. dal 1355 - già morto nel 1399) Datazione: 1365 - 1370 tavola cm 180x248,5 Secolo: XIV Provenienza: Mercato antiquario (già in S.Domenico) - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

«Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (Ap 12, 1)

«Infine, l'immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell'universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte» (CCC, 966)

L'incoronazione di Maria è l'ultimo dei Misteri Gloriosi, che un tempo concludevano il Rosario. In questo dettaglio c'è un particolare insolito: Gesù usa due mani per incoronare la Vergine. In genere questo tipo di soggetto, popolarissimo nel Medioevo e in particolare nei dintorni del 1400, Gesù usa solo la mano destra, mentre la sinistra rimane in grembo o sostiene qualche oggetto simbolico. Una variante medievale precedente è Gesù che incorona Maria con la mano sinistra mentre con la destra fa un gesto benedicente. Maria ha quasi sempre le mani incrociate sul petto in segno di devozione, ma non è mai in ginocchio, bensì assisa in trono.

Solo in epoca più tarda questa rappresentazione cambia forma e pone Maria in una posizione decisamente più sottomessa: in ginocchio e incoronata dal padre e dal figlio contemporaneamente. Il ruolo di Maria, unica donna dell'universo cristiano ad appartenere alla cerchia della divinità, e quindi a raccogliere l'eredità di tutte le divinità femminili del passato, è sempre stato una questione delicatissima e controversa all'interno della teologia. Nel Paradiso, Dante la raffigura infatti come una contraddizione completa e vivente: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio"

Il paradosso di generare il proprio creatore si risolve proprio nel mistero Mariano dell'incoronazione, in cui il cerchio si chiude il figlio stesso l'accoglie a far parte dei più alti troni divini. In questo periodo, in cui le visioni gnostiche e il culto Mariano sono fortissimi e vanno a ricollegarsi agli archetipi femminili precristiani, l'atto dell'incoronazione è visto come un momento di grande intimità tra la madre e il figlio, un momento di accoglienza, riconoscimento e ricongiungimento, che va a completare una sorta di "quaternità" divina. La posizione tra madre e figlio è molto paritetica, tutto sommato, e non ci sono i segni di enfasi e sottomissione femminile presenti ad esempio nell'arte barocca. E' ancora forte la memoria del ruolo fondamentale di Maria dopo la morte di Gesù, progressivamente cancellato dalla tradizione cristiana, e della sua storia umana.

Giovanni da Modena, Crocifisso

Croce sagomata col Padre Eterno, l'Addolorata, San Giovanni e San Francesco (dettaglio)
Giovanni da Modena (doc. a Bologna dal 1409 al 1456) Crocifisso Datazione: 1415 circa tempera su tavola cm 370x295 Secolo: XV Provenienza: San Francesco - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Questo dettaglio ricorda molto da vicino quest'opera di Gentile da Fabriano. Come si vede, l'angelo portatore delle stimmate è molto particolare. San Francesco ricevette le stimmate sul Monte Verna, secondo quanto riporta il martirologio: “Sul monte della Verna, in Toscana, la commemorazione dell'Impressione delle sacre Stimmate, che, per meravigliosa grazia di Dio, furono impresse nelle mani, nei piedi e nel costato di San Francesco, Fondatore dell'Ordine dei Minori”.

Durante una delle sue meditazioni - riporta Bonaventura da Bagnoregio - Francesco venne visitato da un Serafino. I serafini sono angeli non troppo rassicuranti: intanto hanno 6 ali, come si vede bene nel dipinto di Gentile da Fabriano, ed hanno spesso le ali infuocate o luminose. Ecco cosa scrive Bonaventura:

“Un mattino, all'appressarsi della festa dell'Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo, tenendosi librato nell'aria, giunse vicino all'uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l'effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo. A quella vista si stupì fortemente, mentre gioia e tristezza gli inondavano il cuore. Provava letizia per l'atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo, sotto la figura del serafino. Ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l'anima con la spada dolorosa della compassione. Fissava, pieno di stupore, quella visione così misteriosa, conscio che l'infermità della passione non poteva assolutamente coesistere con la natura spirituale e immortale del serafino. Ma da qui comprese, finalmente, per divina rivelazione, lo scopo per cui la divina provvidenza aveva mostrato al suo sguardo quella visione, cioè quello di fargli conoscere anticipatamente che lui, l’amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso, non mediante il martirio della carne, ma mediante l'incendio dello spirito” (Leg. Maj., I, 13, 3).

Il fatto curioso ed unico delle stimmate di Francesco è che non erano buchi nella mani e nei piedi, ma egli recava proprio i chiodi conficcati e apparentemente fatti di carne. “Un ardore mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi nella sua carne. Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva osservato nell'immagine dell'uomo crocifisso. Le mani e i piedi, proprio al centro, si vedevano confitte ai chiodi; le capocchie dei chiodi sporgevano nella parte interna delle mani e nella parte superiore dei piedi, mentre le punte sporgevano dalla parte opposta. Le capocchie nelle mani e nei piedi erano rotonde e nere; le punte, invece, erano allungate, piegate all'indietro e come ribattute, ed uscivano dalla carne stessa, sporgendo sul resto della carne. Il fianco destro era come trapassato da una lancia e coperto da una cicatrice rossa, che spesso emanava sacro Sangue, imbevendo la tonaca e le mutande” (Leg. Maj., I, 13, 3).

Tommaso da Celano, nella sua “Vita Prima di S. Francesco d’Assisi”, sosteneva che “era meraviglioso scorgere al centro delle mani e dei piedi (del Poverello d’Assisi), non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal color del ferro e il costato imporporato dal Sangue. E quelle stimmate di martirio non incutevano timore a nessuno, bensì conferivano decoro e ornamento, come pietruzze nere in un pavimento candido” (II, 113).

Molti nutrirono dubbi sulla veridicità di queste stimmate: lo stesso Papa non ne fa cenno nella canonizzazione del Santo "Papa Gregorio IX, di felice memoria, al quale il Santo aveva profetizzato l’elezione alla cattedra di Pietro, nutriva in cuore, prima di canonizzare l’alfiere della croce (cioè S. Francesco), dei dubbi sulla ferita del costato." Tuttavia poi il Papa cambiò idea dopo un sogno miracoloso in cui Francesco gli donava una fiala di Sange sacro (questo episodio è ritratto da Giotto nella basilica superiore di assisi, a significare quanto fu importante la convinzione che Gregorio si fece).

Pare che le stimmate, tra le altre cose, abbiano dato a Francesco lo speciale potere di fare ogni tanto visita al Purgatorio, raccogliere tutti i francescani ivi stazionanti, e portarli in Paradiso: "così a te concedo ch' ogni anno, il dì della morte tua, tu vadi al purgatorio, e tutte l’anime de’ tuoi tre Ordini, cioè Minori, Suore e Continenti, ed eziandio degli altri i quali saranno istati a te molto divoti, i quali tu vi troverai, tu ne tragga in virtù delle tue Istimate e menile alla gloria di paradiso, acciò che tu sia a me conforme nella morte, come tu se’ nella vita” (“Delle Sacre Sante Istimate di Santo Francesco e delle loro considerazioni”, III considerazione).

La difesa delle stimmate francescane da parte della Chiesa è stata in seguito molto assidua, fino ai teologi contemporanei, e comportò l'emissione di ben nove bolle pontificie in merito. Secondo alcuni teologi del vaticano, San Francesco è stato l'unico vero stigmatizzato: sugli altri permane l'ombra del dubbio.

Rinaldo di Ranuccio, Crocifisso

Rinaldo di Ranuccio, Crocifisso (detail)
Rinaldo di Ranuccio (Spoleto, seconda metà XIII) Crocifisso (Croce sagomata col Salvatore, l'Addolorata e San Giovanni) Datazione: 1265 tempera su tavola cm 224x141,5 Secolo: XIII Provenienza: Attilio Rossi - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Rinaldo di Ranuccio, Crocifisso
Nel XIII secolo inizia a diffondersi in Italia (in particolare a Bologna), proveniente dal sud della Francia, una nuova incografia del Cristo in croce, definita come Christus patiens. A differenza del Christus triumphans di tradizione bizantina, questa rappresentazione vuole sottolineare l'umanità di Gesù, raffigurato come morente e con il corpo piegato ad S. C'è uno scopo preciso in questo tipo di raffigurazione: in questo periodo iniziano a diffondersi dall'oriente eresie che negano l'umanità del Cristo.

E' pertanto necessario, per contrastarle, mostrare una immagine diversa del crocifisso, che ne mostri la sofferenza e l'umanità. Una delle conseguenze estetiche di questa iconografia è che il corpo del Cristo invade parzialmente lo spazio centrale della croce. Pertanto la classica rappresentazione della passione che nei precedenti dipinti fa da sfondo alla crocifissione qui fatica a trovare spazio, ed è quindi sostituita da motivi geometrici.

Maestro dell’Avicenna, Paradiso e Inferno

Maestro dell’Avicenna, Paradiso e Inferno (detail #1)
Maestro dell’Avicenna (Bologna, prima metà del XV secolo) Paradiso e Inferno Datazione: 1435 circa tempera su tavola cm 111x78,5 Secolo: XV Provenienza: Istituto delle Scienze - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Maestro dell’Avicenna, Paradiso e Inferno (detail #2)
In questa rappresentazione dell’Universo dantesco, così simile al grande affresco della Cappella Bolognini in San Petronio, vediamo l’ordine cosmico aristotelico prendere forma nella visione grottesca e orrorifica tipo del periodo medievale. Il paradiso e gli inferi sono in una tremenda lotta in cui l’uomo è preso in mezzo, con il costante rischio di precipitare tra i tormenti demoniaci, o che i demoni stessi sfuggano alla guardia dell’Arcangelo Michele raggiungendo il regno dei vivi.

In alto, una schiera di Serafini racchiude la Vergine Incoronata e il Cristo sovrastati da Dio Padre, mentre la gerarchia angelica attorno riflette l’ordine dei cieli secondo la visione dantesco-aristotelica. La parte mediana vede i Santi della Chiesa in una potente assemblea di troni dorati, mentre al di sotto dell’Arcangelo Michele si apre una visione di corpi straziati e demoni che si accaniscono su di essi.

In questa immagine non ci sono vie di mezzo, il messaggio è chiaro: o si ambisce alla santità o si precipita tra i tormenti dell’inferno, al centro del quale troneggia, incatenato dalla potestà divina, un gigantesco Lucifero: « Lo 'mperador del doloroso regno », come lo descrive Dante nella Commedia. E’ chiaro l’intento moraleggiante di questo tipo di rappresentazione, ma anche il gusto per il macabro e il grottesco, che privilegia le raffigurazioni impressionanti e mostruose, giocando con i sentimenti di repulsione e curiosità dello spettatore.

Pseudo Jacopino, San Giacomo alla battaglia di Clavijo

Pseudo Jacopino, San Giacomo alla battaglia di Clavijo (detail)
Pseudo Jacopino (Bologna, prima metà del XIV secolo) San Giacomo alla battaglia di Clavijo Datazione: 1315 - 1320 affresco cm 303x675 Secolo: XIV Provenienza: Chiesa di San Giacomo Maggiore - Bologna, Pinacoteca Nazionale, 08.12.2011

Questa è la storia di uno degli Apostoli di Cristo, di un minuscolo comune spagnolo, di un re di nome Ramiro, di un emiro di nome Abd al-Raḥmān e di una battaglia leggendaria.

E’ il 23 maggio 844, e nel minuscolo paesino di Clavijo, di fronte al monte Laturce, proprio al centro della provicia della Riojia, si fronteggiano due eserciti. Da un lato il possente esercito dell’emiro Abd al-Raḥmān II, dall’altro quello più piccolo, ma reso forte della fede e della disperazione, di Ramiro I delle Asturie.

L’emiro è un amante della poesia e delle belle arti e vorrebbe solo vivere tranquillo nel suo palazzo di Cordoba, ma questo non gli è mai stato possibile. Il suo problema, ha un nome solo e si chiama “cristiani”. Certo, anche i Vichinghi hanno invaso il regno e quasi conquistato la capitale, ma sono stati respinti e soprattutto sono un nemico che si batte con le armi della guerra tradizionale. I cristiani, invece, sono dei ribelli perniciosi, sempre in fermento e desiderosi di calare dal Nord a riprendersi le terre dei loro avi. Nell’851 sono arrivati persino a farsi martirizzare in massa bestemmiando tutti il Profeta: è stato necessario un editto e un sinodo cristiano per fermare questo assurdo suicidio di massa. E ora sono ancora là, in armi, a minacciare i confini settentrionale del regno.

Ramiro I delle Asturie ha conosciuto anche lui i Vichinghi. Prima di attaccare Siviglia avevano provato con il suo regno, ma era stati prontamente respinti dal suo esercito. Per lui niente è mai stato facile: è salito al trono su nomina del cugino, ma ha dovuto combattere l’usurpatore Nepoziano, di origine visigota, e il suo problema ha un nome solo, e si chiama “al-Andalus”, i Mori, giù a Sud delle Asturie, a spadroneggiare sulla terra dei suoi avi, e ad esigere i tributi più odiosi, come quella delle “cento donzelle”, cento giovinette che ogni anno devono essere strappate alle famiglie e spedite a Cordoba per riempire gli harem dell’emiro e della sua corte. E ora eccoli là, i Mori, in armi, a minacciare i confini meridionali del regno.

La battaglia ha inizio, e come tutte le battaglie sa di ferro, sangue, fumo, morte. I Mori, meglio armati e organizzati, oltre che più numerosi, stanno avendo la meglio. Forse Clavijo e la Riojia cadranno, e un altro pezzo di Spagna andrà in mano ai Mori. Forse i tributi diverrano più esosi e l’emiro si farà più spavaldo. Forse non c’è un futuro per l’orgoglioso regno delle Asturie.

Forse. Ma ad un tratto, da una direzione che non è quella di nessuno dei due schieramenti, compare uno strano cavaliere, su un meraviglioso cavallo bianco il cui manto, sotto il sole quasi estivo, splende fin quasi ad accecare. Indossa vestiti stranissimi, non la cotta di maglia, non le solite armature di cuoio, non sono nemmeno abiti da soldato o da scudiere: porta una tunica chiara ed un mantello che sventola nell’aria limpida, ed è scalzo. Forse è solo un riflesso, ma intorno alla sua testa sembra esserci un alone di luce ancora più intensa di quella del solo.

I soldati di entrambe le parti si guardano tra loro, sono perplessi: forse un pazzo, forse un tranello, forse una manovra diversiva. Forse un altro cristiano che vuole farsi massacrare. Forse. Ma intanto il cavaliere sprona il suo cavallo al galoppo, e punta a testa bassa l’esercito dell’emiro. La prima linea indietreggia instintivamente. Poi, compare una spada e la mano del misterioso cavaliere traccia un segno di croce nell’aria. E tutto cambia.

I Mori sembrano perdere forza e coraggio, indietreggiano confusi, alcuni scappano, moltissimi muoiono intorno al cavallo bianco e al suo cavaliere. Si apre una breccia nella prima linea, ma ancor prima si apre una breccia nel cuore dei soldati musulmani: una breccia di paura e di dubbio. Una breccia che sa di vergogna e di sconfitta. Ed è in quel momento che, dalle linee cristiane, qualcuno lancia un grido selvaggio. Il grido è una parola, e qualla parola è un nome, e quel nome è un miracolo: “Santiago”.

Il resto è ritirata, panico, soldati che inciampano e urlano, comandanti che lanciano ordini inascoltati, rumore di ossa rotte e pianto, il tutto sovrastato dall’impressionante grido dei cristiani “Santiago, Santiago, el Matamoros”. Infine, cala un silenzio fatto di cenere e lamenti. I soldati di Ramiro si guardano in giro, ma lo strano cavaliere è scomparso. Il re non ha però alcun dubbio, l’aveva sognato la notte prima, e gli era sembra un ottimo auspicio: Santiago, San Giacomo il Maggiore, l’Apostolo che Cristo chiamava il figlio del tuono.

Santiago Matamoros, che diventerà il simbolo stesso della Reconquista e che non lascerà il fianco dei re cristiani fino alla cacciata dell’ultimo Omayyade dalla penisola. Ora il tributo delle cento donzelle non è più dovuto all’odiata Cordoba, e diventa un tributo in denaro per il santuario che conserva le spoglie del Santo, in una località che i Romani chiamavano Campus Stellae.